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Il futuro digitale dell’entertainment spiegato all’industria tradizionale

Sono anni che il cinema piange miseria usando le parole crisi, pirateria, tutela, finanziamenti.

La storia va più o meno così:

“Oh, futuro crudele! Esso erode i profitti e riduce le opportunità. Il cinema è in crisi per colpa di X: tra poco non sarà più possibile fare film Y. Abbiamo bisogno che i film vengano tutelati e finanziati da Z. Se non si agisce adesso arriverà l’apocalisse e i vostri bambini diventeranno grandi senza conoscere la settima arte. Deh, spiro.”

Ora al posto di X potete mettere la ragione che volete, il ricercato numero 1 è la pirateria, ma anche l’innovazione, Internet, la chiusura delle sale sono buoni esempi di X.

Il tipo di film Y è ovviamente il più variegato: si va dai film italiani ai film d’autore, dai documentari ai blockbuster, fino ai cinecomic e alle franchise.

Z siete voi: lo stato, gli spettatori, gli altri. Insomma chiunque, ma non l’industria cinematografica stessa.

Mi sono trovato gomito a gomito con questa visione durante l’IPDay. La FAPAV (Federazione per la tutela dei contenuti audiovisivi e multimediali) ha invitato un po’ di rappresentanti della vecchia industria e qualcuno della nuova per un panel.

Il panel si è presto trasformato in un balletto di teste e di un dialogo di sguardi. Mentre parlava l’industria (rappresentata da Borg di Universal e Cima di Anica) i digitali fissavano il vuoto, con sguardo assente e confuso. Mentre parlavano i digitali, gli industriali scuotevano vigorosamente le loro teste.

Oggi voglio parlare all’industria e spiegare perché – da digitale – fissavo il vuoto mentre accanto a me ripetevano ad nauseam la parola tutelare. Con l’augurio che gli industriali  non scuotano tanto vigorosamente le loro teste la prossima volta che ci incontriamo.

Ci sono due ragionamenti da fare e una storia da raccontare per arrivare ad una conclusione positiva per tutti.

Il primo ha a che vedere con lo spauracchio della pirateria.

Negli ultimi anni una delle principali linee di business degli studios – l’home video: fatto di Vhs, Dvd, Blu ray –  è sostanzialmente scomparsa. In più le televisioni tradizionali stanno perdendo pubblico e  le vendite di diritti alle televisioni non potranno che diminuire.

Home video e diritti tv hanno per anni sovvenzionato l’uscita nelle sale. Con queste linee di business prosciugate, alcuni film hanno perso l’accesso anche all’uscita in sala.

La riduzione delle fonti di profitto tradizionali non sono state compensate da altrettanto vigorose entrate provenienti dal quel mondo digitale che si è sostituito all’home video. Perché le vendite dei dvd non sono state compensate dalle vendite digitali?

Una delle ragioni di questo emorragia di fatturato è certamente la pirateria. Protocolli come Bittorrent, siti di streaming, app come Popcorn Time offrono un catalogo quasi illimitato di film, documentari e serie. E lo stereotipo del “pirata che vede in bassa qualità” non è più attuale. I contenuti piratati si vedono benissimo.

Passiamo al secondo ragionamento.

L’altro fattore che è intervenuto – e che nell’industria sembra non si voglia vedere – è la migliore redditività e l’incremento dell’efficienza dovuto alla transizione da analogico a digitale.

Cos’è quest’idea di maggiore redditività ed efficienza? Cosa vuol dire?

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Quando si passa da dall’analogico al digitale si scopre una riduzione di costi a parità di risultato, se non addirittura a fronte di un miglioramento della qualità dei servizi.

Ci siamo abituati – ad esempio – a pagare di meno i voli, a trovare sempre i prezzi più bassi online, a ridurre commissioni e spese sui nostri conti correnti con l’online banking. Il digitale – semplificando la distribuzione – genera efficenza. Questo significa che diminuisce l’attrito: ad esempio si riduce l’attrito eliminando il disco fisico e facendo diventare il DVD un file da scaricare o qualcosa di invisibile da vedere in streaming.

Questo diminuito attrito si manifesta con un risparmio a beneficio del consumatore, che invece di pagare 20 euro per un film fisico, se lo trova incluso nei 9,99 euro di un abbonamento mensile.

È questa efficienza, più che la pirateria, la tendenza di lungo termine da tenere d’occhio. Prima di andare a vedere perché la pirateria probabilmente è il “nemico” sbagliato, vediamo come possiamo osservare al meglio questo fenomeno di abbassamento dei costi, dei prezzi e di diminuzione dell’attrito.

È la musica, stupidi!

Facciamo un viaggetto nel tempo.

Qualche anno fa non esisteva un supporto fisico per vedere i film. O andavi al cinema, o il tuo film passava in televisione in quel momento oppure niente. Poi sono arrivati gli anni ’80 con tutte le loro scatole magiche. Videoregistratori di varie fogge hanno iniziato a consentire di vedere i film quando volevamo.

La reazione di Hollywood è stata da manuale. Prima hanno gridato ai pirati, poi hanno visto l’opportunità. Però non avendo esperienza nella vendita di oggetti fisici al dettaglio, hanno guardato all’industria più vicina che invece ne avesse: la musica. Così i primi dipartimenti di home video sono nati con dirigenti ed impiegati prestati dalla musica.

Perché è importante questo aneddoto. Perché 20 anni dopo la musica si è trovata – per prima – a subire la transizione al digitale. Con parecchi scossoni.

What happened to musicians will happen to everybody.

Quando è arrivato il digitale, la musica è stata la prima industria a subire uno shock. Da sempre aveva puntato tutto sul prodotto fisico: dal vinile, all’audiocassetta al DVD. Le sue vendite erano una gallina dalle uova d’oro. E ad un certo punto arrivò l’MP3. Anche in questo caso la prima reazione fu quella di gridare alla pirateria. Chiudete Napster, dissero i discografici, mentre – terrorizzati – si facevano strozzare da un accordo con iTunes che cedeva ad Apple il controllo sul pricing della musica nel digitale.

Tutta la storia – per chi volesse approfondire – è raccontata qui.

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Oggi con Tidal, Deezer, iTunes, Spotify nessuna grida più alla pirateria. Ci si lamenta direttamente con i fornitori di servizi in streaming che – eliminando l’attrito – hanno rosicchiato i profitti tanto da costringere l’industria ad una dieta drastica.

Il digitale è troppo efficiente. Ha eliminato tanti blocchi intermedi tra il fruitore e la musica. Così oggi tutto tende a costare sempre meno e tutti guadagnano meno (anche i grandi oligopolisti dello streaming). Benvenuti nel mondo del digitale.

Caro Cinema, ecco la lezione della musica.

Quello che la musica ci fa vedere è un mondo in cui ognuno ha diversi tasti sui propri device: questi tasti dicono Apple Music, Deezer, Spotify, etc. Nel mondo del cinema e dell’audio-video in generale un tasto già c’è: è quello di Netflix. C’è spazio per qualche altro tasto ancora. Poi la festa finisce.

Certo, resterà una percentuale di pirateria. C’è ancora chi scarica Mp3, così come chi continuerà a vedere film in streaming da siti pirata. Ma il grosso del mercato tra poco sarà diviso da operatori digitali specializzati, efficienti ed economici.

1000 true fans

La musica ha risolto eliminando sostanzialmente le case discografiche: le band campano sul rapporto diretto con i loro fan. Kevin Kelly ha scritto 1000 true fans.  In questo brevissimo saggio, il futurologo e fondatore di Wired Magazine postula come molti artisti in futuro potranno prosperare attraverso un rapporto diretto con un numero limitato di fan, a patto che questi siano “veri fan” ovvero che abbiano un rapporto viscerale con l’artista che amano.

Per fare un film non bastano 1000 fan, ne servono di più, ma il principio resta lo stesso. Il cinema – nel post-digitale – deve rendersi sempre più necessario. E può farlo soltanto attraverso il rapporto diretto con i fan. E questo lo stanno già facendo sia il cinema indipendente, sia quello dei blockbuster.

Abbiamo parlato a lungo di efficienza. Nell’equazione dell’efficienza non c’è soltanto la discesa dei prezzi (dovuta alla mancanza di attrito tra venditore ed acquirente), ma una nuova dinamica di potere.

Se da un lato l’acquirente si sente privilegiato da prezzi più accessibili, dall’altro il venditore lo può legare alle sue piattaforme. Quindi per vedere un video devo andare su YouTube, per guardare le mie serie preferite devo registrarmi a Netflix e così via.

La transazione che avviene ha dunque due direzioni. Nella prima direzione l’acquirente richiede un video e lo paga (con la pubblicità, con un costo per transazione o con un canone mensile). La seconda transazione avviene in segreto, dietro le quinte: il fornitore del contenuto analizza come il suo contenuto venga fruito. Viene visto per intero? Porta alla visione di altri titoli? Crea dipendenza e porta al binge watching?

E veniamo allora alla risposta ad una delle critiche più importanti che vengono mosse al digitale. Se dal DVD allo streaming il prezzo è diminuito, dove è andata a finire la differenza?
Ecco, è stata valorizzata nei milioni di punti dato che posso ottenere dalla visione di un singolo contenuto. Lì è racchiusa una parte del valore che è scomparso dal prezzo di listino.

Questo ragionamento è particolarmente attuale: spiega perché i video su YouTube sono principalmente gratuiti e spiega perché Netflix sta diventando sempre più raffinata nello sviluppo di serie televisive sempre più attraenti.

Il digitale quindi non significa solo maggiore efficienza, ma anche un nuovo modello di revenue, dove i dati diventano protagonisti.

Nessuno degli operatori del settore vuole un futuro digitale in cui si sia tanta pirateria. E stiamo già vedendo un nuovo fenomeno. Secondo Ted Sarandos in alcuni paesi il semplice avvento di un servizio accessibile ad un prezzo abbordabile (sto parlando di Netflix) ha ridotto il traffico pirata.

Mi sbilancio e faccio una previsione. Gli acquirenti di audio/video sono pronti a stipulare abbonamenti e aggiungere due o tre pulsanti ai loro device. Uno è sicuramente Netflix, un altro potrebbe essere HBO, c’è spazio per un tasto europeo che potrebbe essere quello di Vivendi. E c’è l’opportunità di avere dei servizi per una generazione più adulta e sofisticata (stile Artè), un tasto per i documentari, e così via.

L’opzione “pirata” nel corso dei prossimi 5 anni diventerà meno rilevante. I “siti pirata” non spariranno, ma saranno marginalizzati dai servizi a pagamento. Raccoglieranno un pubblico marginale per due ragioni:

  1. I siti pirata hanno il potenziale di soddisfare la richiesta di film e serie oscure, non distribuite e quindi “fuori dal mercato” ad appassionati che sarebbero disposti ad acquisirle legalmente, se fossero disponibili
  2. Chi non farà l’abbonamento a Netflix e agli altri tasti è un cliente “perso”. Un non cliente: uno che in passato non acquistava dvd, che non aveva la pay tv. Quindi contarlo come una perdita sarebbe un errore.

Dai segnali che vediamo oggi l’impatto economico della pirateria sul settore audiovisivo passerà da essere limitato (oggi) a irrilevante (domani).

Questa è una buona notizia.

L’altra buona notizia fatemela sottolineare una seconda volta: ciò che è successo alla musica sta succedendo al cinema. È una buona notizia perché non è successo prima al cinema. Il cinema può imparare dagli errori della musica, può intravedere il proprio futuro attraverso quello che è successo alla musica e fare passi intelligenti in anticipo, facendo attenzione a non perdere potere negoziale (come è successo alla musica con iTunes) e facendo sì che i servizi online siano tanto comodi, ricchi e piacevoli da usare che ai clienti venga voglia di pagare più di quanto non paghino oggi per Spotify.

Per andare avanti bisogna quindi bandire dal vocabolario dell’industria la parola tutelare. L’industria deve abbracciare il digitale e imparare una nuova parola: valorizzare. Quello che serve è valorizzare le opere audiovisive in modo tale che abbiano una vita lunghissima, che facciano contenti tanti spettatori, che raccolgano tanti soldi per i produttori, così che in futuro avremo ancora più cinema, ancora più serie, ancora più documentari, programmi tv, stand up e nuovi formati di web series che oggi ancora non sappiamo sognare.

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